giovedì 22 dicembre 2011

COCKNEY PEOPLE - Bobby Moore

BOBBY MOORE VE LO RACCONTIAMO COSI'...

L’albergo, di un lusso quasi fastidioso, è un’oasi in quel paese nel quale l’odore di marcio e di povertà non ti dà tregua.

Nella Hall, un incubo di marmi lucidi a specchio su cui si affacciano negozi di souvenir di ogni tipo, c’è perfino una gioielleria.
Si chiama “Fuoco Verde”, dentro vi sono una commessa nervosa ed il titolare, un signore serio dai lineamenti tesi, con baffetti sottili e curati come di solito li portano i militari.
I calciatori inglesi, ragazzi atletici che indossano i pantaloni della tuta e t-shirt bianche, sono fra i pochi europei di passaggio in quella Bogotà calda e umida e ingannano il tempo e la noia passeggiando a coppie, o a terzetti, nellaHall.
Ridono, sbadigliano, entrano ed escono dai negozi, firmano qualche autografo ai rarissimi connazionali; la gente del posto li ignora o li guarda con un misto di curiosità e rabbia.
Quando uno di loro esce dal “Fuoco Verde”, la gioielleria in cui stava curiosando con le mani in tasca, una guardia gli si avvicina.
Mentre la commessa nervosa, abbandonato il banco, lo sta seguendo silenziosa, qualcuno lo indica ad un’altra guardia.
Assieme al collega, che sembrava aspettarlo, quest’ultimo si avvicina al calciatore inglese che passeggia distratto e sorridente.
E’ un atleta ben proporzionato, la faccia larga ed elegante, i capelli biondi sono ondulati, ma in ordine, con un taglio corto che lascia scoperta una fronte alta sopra due occhi intelligenti e azzurri. 
Adesso si è avvicinato anche il titolare della gioielleria, lui e la commessa parlano in spagnolo con le due guardie, senza guardare il calciatore che ora li osserva divertito.
La ragazza appare sempre più nervosa, tiene gli occhi bassi, parla a scatti, indica qualcosa.
Il calciatore inglese sembra non capire, poi qualcuno gli chiede di mostrare il contenuto di una shop-bagdell’aeroporto che porta a tracolla.
Una guardia la apre, ma non trova nulla, anche l’altra, la svuota come cercasse qualcosa di preciso. 
Una delle due guardie farfuglia qualche scusa in un inglese incomprensibile, ma sembra stizzito e sorpreso, più che dispiaciuto ed imbarazzato, l’altra, in silenzio, rimette nella borsa qualche souvenir e dei prodotti da “DutyFree”.
L’incidente, spiacevole, sembra ricomposto.
Ma non è finita.
Un paio di giorni dopo, l’Inghilterra per abituarsi a giocare in altura vola alla volta di Quito dove deve affrontare l’Ecuador.
Se i calciatori inglesi avessero conosciuto lo spagnolo, avrebbero letto quel giorno sui quotidiani che offriva loro una sorridente hostess, i titoli che annunciavano il “furto di un braccialetto tempestato di diamanti” dalla vetrina del “Fuoco Verde”.
Qualche giorno dopo, l’aereo che porta la nazionale inglese da Quito a Città del Messico, fa nuovamente scalo aBogotà.
I calciatori scendono a terra per sgranchirsi le gambe e Bobby Moore viene avvicinato da due poliziotti in borghese e da altri in divisa e dichiarato in arresto; un venditore ambulante e la commessa nervosa lo hanno accusato del furto di quel braccialetto.
Mentre qualcuno della comitiva inglese fa per avvicinarsi, le guardie sfoderano gli sfollagente, poi fra le voci alterate degli astanti, dei curiosi e degli altri calciatori inglesi, il capitano della Nazionale Campione del Mondo in carica, Bobby Moore, l’uomo che da solo rappresenta il calcio inglese, viene portato via.
Non protesta, appare sorpreso, mentre lo spintonano il suo volto perde quell’espressione calma e serena cui ha abituato il mondo.
La sua fama gli evita il carcere: viene “consegnato” ad un facoltoso imprenditore locale, appassionato sportivo, che garantisce per lui. 
Verrà rilasciato il giorno dopo per diretta intercessione del premier inglese, Sir Harold Wilson, ed un membro del Parlamento dichiarerà :-“Avrebbero potuto fare un affronto più grosso all’Inghilterra, solo arrestando la Regina Elisabetta !”-

Non esagerava.
Quel giorno del maggio 1970Bobby Moore, capitano della Nazionale inglese e del West Ham è il calciatore più popolare della vecchia Europa.

La sua fama, il suo prestigio, il suo carisma ed il suo stile non hanno avuto paragoni al  Mondo, almeno inquell’ultimo lustro .
Non per nulla, con la farsa dell’arresto per furto, i colombiani hanno cercato di colpire lui come simbolo del calcio europeo.

Perché Bobby Moore è davvero un simbolo per il calcio europeo di quegli anni.

Ha appena compiuto 29 anni e gioca da sempre in una squadra, il West Ham, tutto sommato secondaria nel panorama calcistico inglese dominato dal Manchester United e dal Liverpool.
Eppure è indiscutibilmente il personaggio più famoso dello sport britannico ed è capitano, altrettanto indiscusso ed indiscutibile, della Nazionale inglese, nonostante abbia diversi anni meno di Bobby Charlton.
Gioca in un ruolo, quello di difensore centrale, storicamente penalizzante per la costruzione di un personaggio calcistico, ma la sua interpretazione di quel ruolo è talmente completa e diversa dagli stereotipi dell’epoca da portarlo in una dimensione tutta sua e sua soltanto.
La sua carriera è brillante, tenuto conto della maglia che indossa: a ventitré anni vince la FA Cup.
E’ il maggio 1964, comincia la parte migliore della sua carriera.
Nel 1965 vince anche la Coppa della Coppe, poi disputa il Charity Shield contro il Liverpool, e, nel 1966, diventa Campione del Mondo contro la Germania e sfiora la Coppa di Lega perduta nella doppia sfida con il WestBromwich Albion.

In questi anni il suo nome si lega indissolubilmente a quello di Wembley: è in quello stadio monumentale, come la sua interpretazione di quel ruolo un tempo solo difensivo, che coglie i suoi più grandi successi : la FA Cup, la Coppa delle Coppe e la Coppa Rimet.
In campo è impeccabile.

Correttissimo, è un difensore come non se ne sono mai visti : non butta mai via un pallone, imposta, guida la squadra come se questa gli obbedisse attraverso briglie invisibili.
Anticipa di un lustro il ruolo di “libero moderno” che consegnerà Beckenbauer alla leggenda, ma del suo rivale tedesco è decisamente più forte nella fase difensiva.
Imbattibile nei contrasti, capace di leggere le trame offensive degli avversari con largo anticipo e di intercettare il pallone là dove solo lui sa prevedere che finirà per passare, è un autentico regista difensivo.
La sua visione di gioco è sopraffina, quasi soprannaturale, la sua intesa con certi compagni addirittura incredibile.
Nella finale mondiale contro la Germania, con i tedeschi in vantaggio per 1-0, avanza a calciare una punizione dalla tre quarti.
Quando parte il tiro, il pallone è indirizzato in una parte dell’area che appare deserta di maglie inglesi, su quella parabola arriverà tuttavia a  colpire il pallone, in perfetta solitudine, Geoff Hurst il suo compagno di club nel WestHam.
Bobby Moore, e solo lui, aveva capito che il compagno, per liberarsi della marcatura ossessiva dei difensori avversari, avrebbe scelto di percorrere quell’impensabile arco di cerchio che lo avrebbe portato all’appuntamento col pallone del pareggio.
In una carriera così grandiosa, quell’episodio triste di Bogotà è stata una macchia sul suo personaggio solo per un breve periodo e solo per una trascurabile porzione dell’opinione pubblica. 
Per tutti Bobby Moore è rimasto, e rimarrà sempre, “il capitano”; la sua immagine sarà per sempre quella in cui, sulle spalle dei compagni festanti, alza la Coppa Rimet.
Anche il mondo del calcio gli riconosce questa supremazia di stile  : nel 1966 finisce al quarto posto nella classifica del Pallone d’Oro, nel 1970, l’anno del fattaccio di Bogotà, arriva addirittura secondo, dietro al soloMuller.
Paradossalmente questo riconoscimento arriva non certo nel suo anno migliore, ma ha il sapore di un risarcimento per quell’immagine immacolata lordata da quell’odioso sospetto.

Anche nel declino è grande.

In Nazionale chiude una carriera che non ha in pratica paragoni disputando le ultime gare della sua inimitabile parabola agonistica contro la Nazionale azzurra.
A Torino, nella prima sconfitta dell’Inghilterra contro l’Italia, Moore è ancora un condottiero indomabile, ma sul primo gol azzurro la palla gli passa beffardamente fra le gambe sulla linea di porta.
A settembre matura l’eliminazione della nazionale inglese dai Mondiali di Germania a favore della fresca Polonia eMoore, sfumata la possibilità di disputare il terzo Mondiale e abbandonata la panchina dei “leoni” da parte del suo mentore Alf Ramsey, decide di non vestire più la maglia della Nazionale. 
A soli 32 anni, per un difensore centrale negli anni ’70 un’età addirittura giovanile, Bobby Moore si ferma a 108 presenze, “caps” come li chiamano in Inghilterra.
Il suo record di presenze resta, con le dovute proporzioni fra i calendari internazionali odierni e quelli dell’epoca, il miglior commento alla sua carriera internazionale anche se ormai è stato superato da molti calciatori nel mondo e da Peter Shilton in Inghilterra.
Tuttavia Moore detiene ancora un record difficilmente battibile: dal 20 maggio 1962 al 14 giugno 1973, ha giocato 107 gare internazionali consecutive indossando per 90 volte la fascia di capitano.      
Lasciato il West Ham dopo tantissimi anni, si accasa al Fulham United che guida, nel 1975, ormai trentaquattrenne, a disputare la finale della FA Cup, proprio contro la sua vecchia squadra.
Il West Ham, quel pomeriggio di maggio, vince la Coppa, ma, alla fine, l’applauso più lungo e struggente è quello per “il capitano” che con quella partita dà il suo addio al grande calcio.
Quando lascia il calcio inglese per una breve avventura negli Stati Uniti, ha disputato 792 incontri, di cui 668 in campionato e 51 in FA Cup, con le maglie di West Ham e Fulham in diciassette anni di carriera professionistica.
Il suo record di presenze con il West Ham, 642 gare, resiste ancora e chissà per quanto resterà inavvicinabile.
Nel 1993, a soli cinquantadue anni, Bobby Moore, “il capitano”, darà l’addio prematuramente anche alla vita.
Stroncato da un male incurabile, lascia in tutti coloro che l’hanno visto calcare il terreno di gioco un ricordo struggente ed indelebile.
Emblematiche le parole che un commosso Pelè pronuncia commentando la notizia della scomparsa  di BobbyMoore :- “Era un mio amico, ed è stato il miglior difensore contro il quale abbia mai giocato in tutta la mia carriera. Il mondo ha perduto un grandissimo calciatore, ma soprattutto un gentiluomo…”

La storia di Bogotà, non è mai stata chiarita.
Io ho dato credito all’ipotesi del complotto per screditare gli inglesi, 
molto poco benvoluti in Sudamerica.
In effetti, quattro anni prima nei Mondiali disputati in Inghilterra, Brasile, e, soprattutto,Uruguay e Argentina avevano avuto modo di lamentarsi del trattamento subito da parte degli inglesi ad ogni livello: dagli arbitraggi, alla stampa,all’opinione pubblica.
Questo episodio, che all’epoca ebbe un’eco senza precedenti, fu poi seguito da un epilogo in sordina.
Il capitano della nazionale inglese non fu mai ufficialmente scagionato dall’accusa, ma solo rilasciato “
in attesa di testimonianze attendibili”.
Che naturalmente non arrivarono mai.
Anni dopo, lo stesso 
Moore raccontò che l’avvocato del gioielliere, personaggio in odore di mafia e contrabbando di pietre preziose, gli aveva proposto di accomodare la cosa “acquistando” il braccialetto per la cifra di trenta milioni di lire dell’epoca. Ma “il capitano”, come sempre nella sua carriera, non scese a compromessi.
A ripensarci per chi era bambino a quel tempo, per chi ha visto giocare 
Bobby Moore , e lo ha visto con gli occhi da bambino non è neppure importante la storia di quella collana perché davvero, come ha scritto Hermann Melville:- “I capitani non infrangono la legge.Essi sono la legge.”-
(da http://www.postadelgufo.it/campioni/moore.html)